SPECIALE ASCO/2 Le novità della ricerca oncologica commentate dagli esperti del Gemelli
Uniti per vincere la battaglia contro il tumore e accelerare il progresso della scienza. Questo il mantra dell’edizione 2020 del congresso dell’American Society of Clinical Oncology che come sempre rappresenta una vetrina d’eccellenza per tanti studi di grande rilevanza sul piano scientifico e di enorme impatto per la pratica clinica e la vita dei pazienti affetti da tumore. I farmaci sono sempre più efficaci e ‘intelligenti’, ma la raccomandazione degli esperti del Gemelli e dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM) è di riprendere al più presto gli screening oncologici, accantonati nei mesi dell’emergenza COVID.
A cura di Maria Rita Montebelli
TUMORE DEL COLON RETTO
Nuove speranze nel tumore del colon-retto in fase avanzata arrivano dal congresso americano di oncologia medica (ASCO). Nei pazienti portatori di un particolare stato di ‘ipermutazione’ del DNA (definito come instabilità dei microsatelliti), l’immunoterapia con pembrolizumab, utilizzata a partire dalla prima linea di trattamento, prolunga in maniera consistente la sopravvivenza.
Nonostante le procedure di screening (ricerca del sangue occulto nelle feci e successiva colonscopia) abbiano migliorato notevolmente la sopravvivenza di questi pazienti, riuscendo ad intervenire in una fase precoce della malattia in cui è possibile una guarigione del paziente grazie all’intervento chirurgico, seguito o meno da un trattamento adiuvante, ad oggi circa il 20% dei tumori del colon retto viene ancora diagnosticato purtroppo in fase avanzata. Dal congresso americano dell’ASCO arriva tuttavia una ventata di speranza. Nello studio di fase III KEYNOTE-177, l’immunoterapia con pembrolizumab, utilizzata in prima linea, ha dimostrato di poter raddoppiare la sopravvivenza libera da progressione di malattia, rispetto alla chemioterapia standard, nei pazienti con tumore del colon-retto metastatico con instabilità dei microsatelliti.
Lo studio è stato condotto su 307 pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico, con instabilità microsatellitare. Confrontato con la chemioterapia, il pembrolizumab ha migliorato la mediana di sopravvivenza libera da progressione di 8,3 mesi (16,5 mesi nel gruppo trattato con l’immunoterapia contro 8,2 mesi dei pazienti trattati con la chemioterapia tradizionale). Questi risultati potrebbero avere ricadute immediate sui pazienti, cambiando l’attuale standard di terapia.
Lo scorso anno in Italia si sono registrati oltre 40 mila nuovi casi di tumore del colon-retto. Circa il 5% dei pazienti con carcinoma del colon-retto metastatico presenta un’elevata instabilità dei microsatelliti, che segnala la presenza di un alto livello di mutazioni nel DNA.
Il commento dell’esperta
Il tumore del colon-retto rappresenta il secondo tumore più frequente nella popolazione generale in Italia; la sua mortalità per fortuna si sta riducendo nelle ultime decadi, grazie allo screening che consente di individuarlo in fase molto precoce. Nonostante ciò, ancora il 20-25% dei pazienti si presenta alla diagnosi già in fase metastatica. Per questo è così importante aderire allo screening, che per il tumore del colon retto prevede l’esecuzione del sangue occulto nelle feci a partire dai 50 anni; se il test risulta positivo si effettua una colonscopia. Ma nei soggetti a rischio (familiarità per tumore, storia di polipi o di malattie infiammatorie croniche) la sorveglianza deve essere più precoce e più aggressiva.
“Le strategie terapeutiche, non solo mediche, ma anche chirurgiche e loco regionali, nei pazienti con tumore del colon-retto metastatico – commenta la dottoressa Lisa Salvatore, dirigente medico presso la UOC Oncologia Medica, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS , dove si occupa del trattamento e della gestione dei pazienti con tumore del colon-retto, pancreas e vie biliari, Coordinatrice del Tumor Board Colon all’interno del Comprehensive Cancer Center e Coordinatrice delle linee guida nazionali AIOM sul colon – negli ultimi anni sono molto migliorate portando ad un sensibile aumento della sopravvivenza di questi pazienti . Lo studio Keynote 177 riguarda una popolazione molto selezionata, quella con instabilità dei microsatelliti (che rappresenta il 5% di tutti i pazienti metastatici). La somministrazione di pembrolizumab ha sconvolto in positivo la prognosi dei pazienti, rispetto alla terapia tradizionale (chemioterapia più farmaci biologici, bevacizumab o anti-EGFR). La sopravvivenza libera da progressione (PFS) di malattia è risultata infatti di circa 8 mesi nei soggetti trattati con chemioterapia standard, rispetto ai 16 mesi di quelli trattati con l’immunoterapia. Sono risultati importanti: è la prima volta che un trattamento ottiene una PFS che supera l’anno nei pazienti con tumore del colon-retto metastatico”.
Alla luce dei risultati di questo studio, diventa dunque molto importante sottoporre tutti i pazienti con tumore del colon retto metastatico al test dell’instabilità dei microsatelliti, cosa che in realtà si sta già facendo a tappeto su tutto il territorio nazionale. “Dallo scorso anno – ricorda la dottoressa Salvatore – nelle linee guida italiane è stata inserita la raccomandazione di effettuare questo test in tutti i pazienti che vengono operati per tumore del colon-retto (questa analisi viene fatta sul pezzo operatorio). Questo ci aiuta tra l’altro ad individuare i pazienti con sindromi ereditarie (sindrome di Lynch); in quel caso, il paziente viene inviato a consulenza genetica e, in caso di diagnosi di sindrome ereditaria, anche i suoi familiari vengono screenati. Il test dell’instabilità dei microsatelliti serve inoltre sia subito dopo l’intervento chirurgico, per decidere se fare o meno una chemioterapia cosiddetta adiuvante; ma anche nel paziente metastatico, perché ci permette di valutare la possibilità di un eventuale trattamento immunoterapico (che al momento può essere somministrato solo all’interno di studi clinici)”.
Gli studi presentati dagli oncologi del Gemelli al congresso dell’ASCO
“Quest’anno il nostro gruppo, diretto dal professor Giampaolo Tortora (Direttore dell’Oncologia Medica e del Comprehensive Cancer Center del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS) – afferma la dottoressa Salvatore, che ha coordinato questi studi – ha presentato due lavori molto significativi sul tumore del colon-retto metastatico, accettati come poster. Il primo ha valutato l’efficacia di un trattamento di terza linea con anticorpi monoclonali anti-EGFR (cetuximab o panitumumab) in pazienti con tumore del colon-retto metastatico RAS e BRAF wild-type, in base alla sede del tumore (colon destro o colon sinistro). Lo studio è stato fatto in collaborazione con il Campus Biomedico e il Fatebenefratelli di Roma. Ad oggi molti dati su questo argomento sono disponibili per le prime linee di trattamento, mentre sono molto scarsi nelle linee più avanzate. Il nostro studio è importante perché conferma, anche in terza linea, il diverso beneficio degli anti-EGFR in base alla sede del tumore primitivo. Nello specifico, si conferma il ruolo dei tumori sinistri nel predire il beneficio derivante da un trattamento di terza linea con cetuximab o panitumumab, mentre nessuna differenza rispetto ad altri trattamenti di terza linea (come il regorafenib o il TAS-102) è stata osservata nei tumori destri. La sede di insorgenza del tumore condiziona dunque la risposta alla terapia e i tumori del colon destro si confermano essere più aggressivi e a prognosi peggiore”.
Il secondo studio ha valutato sempre il ruolo della sede d’insorgenza del tumore, ma questa volta come fattore prognostico dopo resezione radicale delle metastasi epatiche da tumore del colon-retto. “Questo studio – spiega la dottoressa Salvatore – è uno studio monocentrico, effettuato in collaborazione con i chirurghi del gruppo del professor Felice Giuliante (Direttore Chirurgia Generale ed Epato-Biliare del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS). Abbiamo analizzato in modo retrospettivo 463 pazienti con tumore del colon-retto e metastasi epatiche resecate radicalmente. Lo studio dimostra che anche se i tumori a insorgenza nel colon destro hanno in generale una prognosi peggiore, questo non deve rappresentare una controindicazione ad una chirurgia radicale epatica quando fattibile, perché comunque essa è associata ad un miglioramento importante dei risultati ottenibili. In questi casi selezionati a fare la differenza nella prognosi è sicuramente l’impostazione di un’adeguata strategia terapeutica che deve essere concordata fin dall’inizio dopo discussione multidisciplinare e l’alta specializzazione del centro di riferimento con un alto volume di tali interventi”.
TUMORE DEL RETTO
Il trattamento delle neoplasie del retto localmente avanzate si basa oggi sulla radioterapia (associata o meno a trattamento chemioterapico concomitante), seguita da intervento chirurgico. Negli ultimi 20 anni l’avanzamento delle tecniche radioterapiche e l’affinamento di quelle chirurgiche ha permesso di ottenere un aumento del tasso di guarigione e una notevole riduzione del rischio di recidiva a livello locale e linfonodale. Tuttavia, per le neoplasie del retto, la recidiva della malattia a distanza e la mortalità per metastasi interessa ancora un quarto dei pazienti affetti da questa malattia.
Gli studi clinici sulla chemioterapia ‘adiuvante’, cioè effettuata dopo intervento chirurgico, allo scopo di bonificare eventuali ‘micrometastasi’ e aumentare il tasso di guarigione, hanno dato risultati controversi. Inoltre, nella pratica clinica il trattamento chemioterapico viene effettuato in genere dopo l’intervento chirurgico. Ma alcuni studi condotti in passatto hanno indotto a ritenere che effettuare la chemioterapia prima dell’intervento, potrebbe apportare un vantaggio.
E’ su questi presupposti che nasce il RAPIDO, uno studio clinico di fase III, appena presentato al congresso dell’ASCO, che ha valutato l’efficacia del trattamento chemioterapico prima della chirurgia e dopo radioterapia neoadiuvante, su pazienti affetti da neoplasia del retto in stadio avanzato (T4 o N2). Lo studio ha randomizzato 920 pazienti; quelli del braccio sperimentale (gruppo B) dopo radioterapia ricevevano la chemioterapia (Oxaliplatino in associazione a 5-Flurouracile o Capecitabina) per 6 mesi e, a seguire, venivano sottoposti ad intervento chirurgico. Questi sono stati confrontati con un braccio di controllo (gruppo A) trattato secondo la pratica clinica consolidata, cioè radioterapia e intervento chirurgico, dopo 8 settimane dal termine della radioterapia. Poco meno della metà dei pazienti del braccio A hanno ricevuto inoltre la chemioterapia, dopo l’intervento chirurgico.
Lo studio ha mostrato un beneficio del trattamento chemioterapico neoadiuvante, rispetto ai pazienti trattati secondo lo standard clinico, evidenziando una riduzione statisticamente significativa del rischio di ripresa di malattia a tre anni (ridotto dal 30,4% al 23,7%) e una minore incidenza di metastasi a tre anni (il rischio si è ridotto dal 26,8% al 20%) con un riscontro di risposte patologiche complete raddoppiato per i pazienti trattati con la chemioterapia nella pausa tra radioterapia e intervento chirurgico (28% contro 14%).
Per quanto riguarda il rischio di recidiva locoregionale, non si è evidenziata una differenza statisticamente significativa tra i due gruppi di trattamento. Non si evidenzia una differenza nella sopravvivenza globale tra i due gruppi, ma questo è probabilmente dovuto al breve tempo di osservazione (3 anni). I pazienti del braccio sperimentale hanno presentato una maggiore incidenza di tossicità gastrointestinale (diarrea) e di complicanze vascolari (trombosi), ma nel complesso il trattamento è stato ben tollerato.
Il commento dell’esperto
Lo studio – commenta il dottor Fabio Marazzi, dirigente medico presso il DH di Radio-Chemioterapia del Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, afferente al Dipartimento di diagnostica per immagini, radioterapia oncologica ed ematologia, diretto dal professor Vincenzo Valentini – ha evidenziato che, nei pazienti affetti da neoplasia del retto localmente avanzata, anticipare la chemioterapia prima dell’intervento chirurgico può determinare un vantaggio, in termini di riduzione delle metastasi e della ripresa di malattia in generale.
Questo nuovo approccio terapeutico potrebbe dunque offrire un vantaggio soprattutto nei pazienti con neoplasia del retto localmente avanzata e con un profilo di rischio più sfavorevole (stadio T4a/b, N2, invasione vascolare extramurale, invasione del mesoretto e metastasi linfonodali pelviche laterali); non aumenta inoltre in modo significativo la tossicità, né sembra compromette i risultati, posticipando di 6 mesi l’intervento chirurgico.
E’ necessario tuttavia attendere un follow up più maturo per stabilire se i benefici riscontrati da questo studio si tradurranno in un aumento della sopravvivenza globale.
SPECIALE ASCO/1 Le novità della ricerca oncologica commentate dagli esperti del Gemelli
Si è appena tenuta, anche se in veste ‘virtuale’ sul web, l’edizione 2020 del congresso dell’American Society for Clinical Oncology (ASCO). Come sempre ricco di studi al top sul fronte della ricerca oncologica e di ricadute molto concrete sulla pratica clinica per le persone affette da un tumore, quello dell’ASCO è il congresso di oncologia più importante dell’anno, che attira in tempi normali a Chicago 40 mila oncologi da tutto il mondo. Abbiamo chiesto agli esperti del Gemelli, protagonisti tra l’altro di molti degli studi internazionali appena presentati, di commentare per noi le ricerche più innovative e l’impatto che avranno sulla pratica clinica e sulla vita dei pazienti.
A cura di Maria Rita Montebelli
TUMORE POLMONARE NON A PICCOLE CELLULE (NSCLC) EGFR MUTATO
L’impiego della terapia a bersaglio molecolare, dopo un intervento chirurgico radicale per un tumore del polmonare con mutazione del gene EGFR (recettore del fattore di crescita epidermico), sembra migliorare di circa l’80% la sopravvivenza libera da malattia. Lo indicano i primi risultati dello studio ADAURA, uno dei più importanti presentati quest’anno al congresso dell’American Society of Clinical Oncology (ASCO), appena tenutosi in formato virtuale, a causa della pandemia di COVID-19. Questo vantaggio è stato ottenuto grazie a osimertinib, un inibitore diEGFR, che rappresenta già il trattamento di prima scelta nei tumori polmonari non a piccole cellule (NSCLC) con mutazione di questo gene, in fase avanzata. Pertanto, osimertinib si candida a diventare la terapia di scelta nei pazienti con questo tipo di tumore polmonare, in stadio più precoce (IB, II, IIIA), sottoposti a intervento chirurgico radicale.
Lo studio ADAURA ha coinvolto 683 pazienti arruolati in tutto il mondo (anche in Italia); metà sono stati assegnati al trattamento con osimertinib, dopo intervento chirurgico (terapia ‘adiuvante’); l’altra metà (gruppo di controllo) al placebo. Il 90% dei soggetti trattati con la terapia a target era ancora vivo a due anni senza aver presentato recidive di malattia, contro il 44% dei pazienti del gruppo di controllo. Nei pazienti con tumore in stadio II-IIIA , trattati con osimertinib, il rischio di recidiva di malattia o di morte è risultato ridotto dell’83% .
Il commento dell’esperto
“Lo studio ADAURA – commenta il professor Emilio Bria, Professore associato di Oncologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore eResponsabile della U.O.S. Neoplasie Toraco-Polmonari, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS – ha coinvolto un gruppo di circa 700 pazienti con tumore polmonare non a piccole cellule (NSCLC) EGFR-mutato che, dopo intervento chirurgico e chemioterapia adiuvante, quando appropriata, sono stati assegnati a ricevere osimertinib (un farmaco che noi già utilizziamo come terapia standard nella fase avanzata di malattia) o placebo. I risultati dello studio sono molto importanti: per la prima volta in una popolazione senza restrizioni di etnia (non solo asiatica) si evidenzia un vantaggio in termini di rischio di recidiva di malattia. In queste neoplasie finora l’unica strategia per migliorare la prognosi era rappresentata dalla chemioterapia, con risultati purtroppo non sufficientemente soddisfacenti, in quanto in grado di migliorare la sopravvivenza a 5 anni del 4-5% e di ridurre il rischio di recidiva solo nel 10-15% dei pazienti. Lo studio ADAURA invece mostra, in una popolazione selezionata di pazienti, portatori di una mutazione specifica del gene EGFR, dei risultati molto incoraggianti, in quanto la riduzione del rischio di recidiva è più che raddoppiata. Sono dati ovviamente molto preliminari – ammette il professor Bria – visto che lo studio è recente e manca il dato della sopravvivenza globale; ma, dai risultati attualmente a disposizione, si può certamente concludere che ci troviamo di fronte ad una rivoluzione. Se i dati dovessero essere confermati, nei prossimi anni osimertinib potrebbe cambiare radicalmente la strategia di trattamento in questi pazienti (oggi rappresentata dalla chemioterapia adiuvante dopo l’intervento chirurgico), che potrebbero ricevere la terapia ‘a target’ con osimertinib. Il farmaco è efficace solo nei pazienti con mutazione del gene EGFR, che rappresentano solo il 10-15% di quelli con tumore polmonare non a piccole cellule”. Nello studio ADAURA, i pazienti con tumori più piccoli, dopo l’intervento chirurgico facevano direttamente osimertinib; quelli con tumori più grandi e/o con metastasi linfonodali mediastiniche, dopo l’intervento facevano in sequenza prima la chemioterapia, poi osimertinib.
“I risultati di questo studio – conclude il professor Bria – rappresentano una reale innovazione, e una volta confermati, diventerà verosimilmente necessario richiedere a tutti i pazienti operati di tumore del polmone quanto meno l’analisi del gene EGFR sul pezzo operatorio, cosa già oggi possibile in quasi tutti i centri a livello nazionale”.
TUMORE DELL’OVAIO
I nuovi dati di sopravvivenza per lo studio SOLO-2 presentati all’ASCO, confermano che l’olaparib (un farmaco della categoria dei PARP-inibitori) può fare veramente la differenza, anche in termini di sopravvivenza, nelle pazienti con tumore dell’ovaio. Il farmaco, somministrato come terapia di mantenimento dopo chemioterapia a base di platino, nelle donne con tumore dell’ovaio BRCA-mutato e recidivato, ha esteso la loro sopravvivenza di oltre un anno. Un risultato notevole per un tumore ritenuto tra i più difficili da trattare. Lo studio SOLO-2 ha arruolato 300 donne affette da tumore dell’ovaio con mutazione BRCA che, alla recidiva, erano state sottoposte a chemioterapia. Metà di loro hanno proseguito il trattamento con olaparib (terapia di mantenimento); all’altra metà è stato somministrato un placebo (gruppo di controllo). Una precedente analisi dei risultati dello studio aveva già mostrato un beneficio molto significativo sulla sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS) risultata di 19,1 mesi per le pazienti trattate con il PARP-inibitore in mantenimento, contro 5,5 mesi del gruppo di controllo. I nuovi dati presentati all’ASCO evidenziano un beneficio notevole anche sulla sopravvivenza: il trattamento con olaparib prolunga la sopravvivenza di 12,9 mesi rispetto al placebo, arrivando a 51,7 mesi per il gruppo olaparib, contro 38,8 mesi del gruppo placebo. Al follow-up a 5 anni, era ancora in vita il 42,1% delle donne trattate con olaparib, contro il 33,2% del gruppo di controllo. Gli esperti descrivono come ‘impressionanti’ questi risultati, che offrono un beneficio sostanziale alle pazienti con tumore dell’ovaio recidivato e mutazione BRCA. Un notevole passo avanti nel campo della medicina personalizzata.
Il commento dell’esperto
“Per la prima volta, nell’arco degli ultimi 50 anni – commenta la dottoressa Ketta Lorusso, Dirigente medico di I livello presso l’UOC di Ginecologia Oncologica, diretta dal professor Giovanni Scambia e Responsabile dell’Unità Operativa di Ricerca clinica della Fondazione Policlinico Universitario A.Gemelli IRCCS – due studi presentati all’ASCO, ci indicano che alcune strategie terapeutiche sono in grado di aumentare la sopravvivenza globale (OS) delle nostre pazienti e non solo la sopravvivenza libera da progressione di malattia (PFS)”.
Le due strategie sono una chirurgica e l’altra farmacologica. Lo studio internazionale DESKTOP-III ha dimostrato che la chirurgia della recidiva di tumore ovarico si traduce in un aumento della sopravvivenza: le pazienti operate vivono almeno 8 mesi più rispetto a quelle non operate e che ricevono la sola chemioterapia. Fondamentale naturalmente è che la recidiva del tumore sia asportata completamente. “Questo – prosegue la dottoressa Russo – sottolinea l’importanza di effettuare questi complessi interventi presso un ottimo centro di riferimento, dove la donna possa trovare tutte le competenze e le expertise per gestire la chirurgia della recidiva che spesso è ancora più complessa della chirurgia della prima linea. Un’altra indicazione che viene da questo studio è quella di potenziare il follow-up di queste pazienti perché bisogna essere in grado di individuare la recidiva in fase iniziale, quando è ancora potenzialmente operabile. In questo studio, le pazienti con recidiva di tumore dell’ovaio venivano avviate alla chirurgia se presentavano il cosiddetto punteggio ‘Desktop’ positivo (buone condizioni generali per poter proporre una chirurgia secondaria, un ottimo intervento chirurgico effettuato alla prima diagnosi di malattia, l’assenza di ascite). I risultati ottenuti in questo studio suggeriscono dunque di far sempre valutare al chirurgo la paziente con recidiva di tumore ovarico, prima di iniziare la chemioterapia”.
La strategia farmacologica riguarda invece i PARP-inibitori, una classe di farmaci che sta cambiando la storia della malattia nel tumore ovarico, dalla prima alla seconda linea. Delle performance di olaparib nello studio SOLO-2 finora si conoscevano solo i risultati – anch’essi molto importanti – sull’allungamento della sopravvivenza libera da progressione di malattia: il farmaco, somministrato in prima linea nelle pazienti con tumore dell’ovaio e mutazione BRCA, ritarda la recidiva mediamente di tre anni. Dall’ASCO arrivano adesso dati di sopravvivenza dello studio SOLO-2, effettuato su donne con recidiva tardiva di tumore dell’ovaio BRCA-mutato, quella che insorge a più di 6 mesi dalla fine della chemioterapia a base di platino. “Queste pazienti – spiega la dottoressa Lorusso – venivano sottoposte ad un nuovo trattamento a base di platino e se rispondevano a questo trattamento, venivano messe in mantenimento con olaparib o con placebo. Questo PARP inibitore ha aumentato la sopravvivenza da 38,3 mesi a 51,7 mesi, riducendo del 26% il rischio di mortalità in queste donne. Si tratta di un risultato straordinario, che non raggiunge per poco la significatività statistica (la p è 0,053). Ma il valore clinico di questi risultati supera di gran lunga la statistica e si traduce in un anno di vita in più per le pazienti che assumono questo farmaco”.
VESCICA E TUMORI UROTELIALI
Anche nel caso dei tumori della vescica, dal congresso degli oncologi americani arrivano buone notizie. Avelumab, un immunoterapico, somministrato dopo la chemioterapia, estende la sopravvivenza dei pazienti con tumore uroteliale (vescica, uretere, pelvi renale) in fase avanzata. Lo studio JAVELIN Bladder 100 ha arruolato 700 pazienti con tumore uroteliale, che avevano mostrato una risposta o una stabilità al trattamento con chemioterapia. La metà di loro è stata randomizzata a ricevere, dopo la chemioterapia, avelumab e terapia di supporto; l’altra metà alla sola terapia di supporto. L’impiego di avelumab come terapia di mantenimento, subito dopo la chemioterapia, ha esteso la sopravvivenza di questi pazienti di 7,1 mesi (la sopravvivenza è stata di 21,4 mesi nei soggetti trattati con l’immunoterapia, contro 14,3 mesi del gruppo di controllo). Si tratta del più consistente beneficio sulla sopravvivenza mai osservato in questa popolazione di pazienti (che presentava un tumore uroteliale localmente avanzato non operabile o metastatico), con una terapia di mantenimento. Il tumore della vescica è al quinto posto tra i tumori più frequenti in Italia; lo scorso anno ne sono stati diagnosticati 29.700 nuovi casi.
Il commento dell’esperto
“I tumori uroteliali – afferma il dottor Roberto Iacovelli, Dirigente medico UOC Oncologia Medica, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, diretta dal professor Giampaolo Tortora – pur non essendo molto frequenti, hanno un impatto notevole sui pazienti, che spesso vanno incontro ad interventi chirurgici invalidanti (asportazione completa della vescica o dell’organo interessato dal tumore, come rene e uretere).
Il 15% dei pazienti viene diagnosticato già in fase metastatica, mentre un altro 20% di pazienti con diagnosi iniziale di malattia in fase precoce, evolve più tardivamente verso una malattia metastatica. Fino a qualche anno fa, le possibilità di cura per questi pazienti erano veramente scarse; avevamo a disposizione solo due linee di chemioterapia efficaci. La storia è cambiata da qualche anno con l’arrivo della prima immunoterapia (il pembrolizumab), che ha mostrato un vantaggio in termini di sopravvivenza, rispetto alla chemioterapia tradizionale ma il cui utilizzo è ad oggi limitato alla seconda linea di trattamento. La novità dello studio Javelin è che in questi pazienti l’immunoterapia viene anticipata, come terapia di mantenimento, subito dopo aver ricevuto una prima linea di chemioterapia efficace, che ha bloccato la crescita della malattia.
Sappiamo che i pazienti affetti da neoplasie uroteliali non possono fare chemioterapia con cisplatino o carboplatino all’infinito e nella pratica clinica somministriamo 4-6 cicli di terapia al massimo; se la malattia ha risposto, ci si ferma e si continua a controllare il paziente. Alcuni purtroppo ricadono precocemente, altri più tardivamente e a quel punto è necessario riprendere un trattamento medico per arginare la crescita tumorale. La novità introdotta dallo studio Javelin 100 è stata quella di iniziare l’immunoterapia come mantenimento, subito dopo la prima risposta alla chemioterapia, senza dover attendere il peggioramento della malattia. I risultati di questo studio sono importati da un punto di vista clinico poiché dimostrano come l’introduzione precoce dell’immunoterapia sia in grado di ritardare significativamente la progressione della malattia, migliorando la sopravvivenza di altri 7 mesi (su un’attesa di vita di 14 mesi), e assicurando anche una migliore qualità di vita, ritardando i sintomi legati al peggioramento della malattia.
L’Oncologia Medica della Fondazione Policlinico Gemelli – prosegue il dottor Iacovelli – grazie alla dedizione di un team dedicato al trattamento dei tumori genitourinari, all’interesse per le nuove possibilità di cura del suo direttore, professor Giampaolo Tortora, e alla stretta collaborazione con i colleghi urologi, è attivamente impegnata nell’offrire numerose possibilità di terapie innovative per i pazienti affetti da tumori uroteliali. Queste vanno dall’uso dell’immunoterapia nei pazienti con malattia iniziale e refrattaria al BCG, a studi di combinazioni di immunoterapici e chemioterapia per i pazienti con malattia avanzata, fino allo screening genetico per individuare specifiche alterazioni del gene FGFR, che predispongono alla risposta a farmaci innovativi ora in fase avanzata di sperimentazione. Infine – aggiunge il dottor Iacovelli, siamo gli ideatori e capofila dello studio nazionale ARIES, che prevede la somministrazione di avelumab (lo stesso farmaco usato nello studio Javelin 100), come prima linea di trattamento per la malattia avanzata, in quei pazienti particolarmente fragili che non potrebbero sopportare la chemioterapia con cisplatino e che presentino il marker PD-L1 in più del 5% delle cellule tumorali. Saremo inoltre il centro coordinatore nazionale per una nuova sperimentazione che si pone l’obiettivo di superare il concetto di chemioterapia, confrontando a questa, la combinazione di immunoterapia con un farmaco innovativo (enfortumab vedotin), già approvato singolarmente negli Stati Uniti per i significativi dati di efficacia riportati in recenti studi clinici.
C’è molto ancora molto da fare, ma la nostra esperienza ci ha insegnato come, più che il nostro contributo, sia quello dei pazienti di oggi, che accettano di partecipare ad uno studio clinico, a migliorare significativamente la vita dei pazienti di domani offrendo nuove speranze di cura e di guarigione.”
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