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“ANGELI E DEMONI”: l’ennesimo business dei bambini

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Gaeta, 28 Giugno 2019 Ciò che è accaduto a Bibbiano (Reggio Emilia) è alquanto sconcertante.
Notizie del genere non si leggevano più dai tempi forse della seconda guerra mondiale, se non in certi paesi sottoposti ancora ai regimi.
L’indignazione da parte dei lettori della notizia è stata immediata eppure, sicuramente, tra le persone che oggi sbalordiscono ci sarà purtroppo anche qualcuno che ha visto, saputo o quanto meno sospettato quello che stava accadendo e non ha parlato; perché è impossibile mettere in piedi una macchina diabolica di tale portata senza che nessuno se ne accorga, a maggior ragione essendo coinvolti anche professionisti del pubblico impiego.
Da dove nasce tutto questo business sui bambini? Sicuramente dal fatto che portano soldi e li portano perché purtroppo per avere un bambino oggi si è disposti veramente a tutto.
Il vero tema di questa brutta storia è infatti la genitorialità: ad alcuni negata, ad altri concessa senza titolo.
Quello che ha reso difficile smantellare questa vicenda è la presunta verità dei fatti, poiché è vero che ci sono genitori che maltrattano i propri figli; episodi di violenza, trascuratezza, incuria sono all’ordine del giorno.
Com’è vero, dall’altro canto che oramai il pensiero comune si sta indirizzando nel senso che si possa diventare genitori in ogni modo, cioè che la genitorialità sia un diritto.
E invece, se è vero come è vero che esiste un diritto, ampiamente riconosciuto, di ogni bambino ad avere una famiglia, non è altrettanto vero il contrario, cioè che di conseguenza ogni persona abbia diritto a diventare genitore.
In realtà, nello specifico, quando si parla in senso generale del “diritto del bambino ad una famiglia” si usa un’espressione parzialmente impropria.
Questo concetto infatti fa riferimento all’articolo 20 della Convenzione di New York il quale testualmente recita: “Art. 20 – 1. Ogni fanciullo il quale è temporaneamente o definitivamente privato del suo ambiente familiare oppure che non può essere lasciato in tale ambiente nel suo proprio interesse, ha diritto a una protezione e ad aiuti speciali dello Stato”.
A ben vedere dunque la norma parla di “protezione” e non espressamente di famiglia; va da sé che lo Stato, che prende in carico un bambino, nella maggior parte dei casi,  individua come migliore protezione la collocazione del minore in un ambiente che riflette il nucleo familiare.
Per cui, evocare il diritto del bambino ad una famiglia, è una sintesi imperfetta di un conetto molto più ampio; poiché l’affidamento di un  bambino ad una coppia, non è altro che la modalità per esercitare quella protezione alla quale lo Stato è obbligato e non di certo, la realizzazione di un diritto alla genitorialità per una coppia che non è riuscita in altro modo ad avere figli propri.
La ratio della norma, tra l’altro è facilmente intuibile e risiede nel dare cura e protezione ad un soggetto di fatto incapace di farlo autonomamente.
Lo Stato dunque, dovrebbe essere garante dei diritti del bambino e non esso stesso carnefice, come è accaduto in questo caso.

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a cura di: Alessia Maria Di Biase