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Recensione a “Lo Stupro”, lettura teatrale diretta da Diego Sasso, andato in scena a Itri il 25 novembre

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Quest’anno, il 25 novembre, almeno nel nostro Paese, assume un sapore diverso, fugando dalla solita retorica, bucando parecchio l’immaginario collettivo. Non è solo il giorno dedicato alla violenza sulle donne, ma è occasione per elevare finalmente a un rango, se vogliamo, filosofico, forse anche antropologico, tutto ciò che è alla radice della nostra cultura che pone le proprie fondamenta intorno alla socializzazione del genere. Diventano evidenti e centrali le dissimmetrie che giorno dopo giorno sfociano in manifestazioni di violenza, che non è mai (stata) solo una violenza spietata e plateale. Certo, il caso di femminicidio fa rumore, stimolando ancora una volta il feticismo neanche troppo mascherato per la follia violenta. Crea una soddisfazione macabra il vedere e toccare con mano qualcosa di così atroce come un omicidio efferato e volontario, in un misticismo che non mi sono mai riuscito a spiegare. Eppure le dissimmetrie non sono solo questo. Forse sono anche questo, ma la loro drammaticità si manifesta più spietatamente nel silenzio delle piccole cose quotidiane, per mano di persone che si ritengono buone e giuste solo perché non hanno mai picchiato o aggredito la propria partner.

Come quel tuo amico. Come te. Come me.

È questa la violenza che si ha sete di raccontare, su cui noi socializzati come uomini non abbiamo molto diritto di parola, bensì solo l’opportunità di ascoltare, cogliendo l’occasione per cambiare veramente, decostruendoci con umiltà e testa bassa. Perché infastidisce che, forse per la prima volta, ci troviamo messi in discussione per quello che siamo, che siamo additati in maniera pregiudiziale e che davanti a sentimenti che non comprendiamo fino in fondo, ci troviamo d’innanzi a una gogna mediatica che solo per noi appare ingiustificata e insensata. Probabilmente è solo un assaggio di una condizione millenaria, cementata in una civiltà illetterata, violenta e sessualmente repressa come quella occidentale.

Il rammarico è che doveva morirne un’Altra, ancora un’Altra, per rendere ciò possibile.

Si tratta di una premessa necessaria, per introdurre ciò che è stato lo spettacolo “Lo Stupro” per la regia di Diego Sasso, andato in scena il 25 novembre presso il Museo del Brigantaggio di Itri (LT). Non si parlerà di cose belle. Perché non c’è niente di bello in questa messinscena. Un carosello di racconti terribili, di violenze piccole e grandi, più o meno manifeste, in cui non c’è spazio per ironia o per qualche battuta per alleggerire il tutto. Sul palco si avvicendano donne normali, di tutte le età, tristi protagoniste di destini infausti, la cui linea comune è solo la condizione di silenzio. Letture pensate appositamente per far riflettere, che rapiscono per l’intensità dei temi, inorridiscono per il contenuto, per poi emozionare dondolate sul pathos della recitazione delle attrici. Non c’è una vera e propria protagonista, almeno nell’atto iniziale, sebbene ciascuna delle interpreti (Claudia Conelli, Erica Colledanchise Masella, Annamaria Zuppardi, Francesca Trapani, Chiara Agostini e Marta Cardogna) si ritaglia un ruolo di spicco, in un gioco di scambio continuo tra chi vive la storia e chi la narra. Ciò restituisce l’idea che tutte le donne che si avvicendano sulla scena sono parte di una narrazione comune, che è tanto specifica quanto generale. È il teatro che torna nella sua spietata arte di raccontare il vero dal vero, miscelando emozioni e vissuti, inscenando qualcosa che non può piacere, che non deve piacere. La scena è semplice, riempita solo da una sedia al centro, che diventa man mano che le narrazioni si susseguono, oggetto integrante e necessario. Talvolta è un luogo dove sedersi, dove raccontarsi. In altri momenti, è strumento di manifestazione di violenza, il che si fa metafora dell’ambivalenza di tutte le cose, da un amore che diventa ossessione, da un rifiuto che muta in stupro, da un diverbio che sfocia in omicidio. Da qui si evince la brillantezza e la consapevolezza del regista, che adatta sapientemente passaggi di Merini e Haddad per le letture, e di Poe e Rame per i monologhi. Proprio quest’ultimi sono quelli che meritano una menzione speciale, per intensità e capacità interpretativa. Il merito è sicuramente di Dalila Lombardi (“Il Cuore Rivelatore”) e di Pamela Passalacqua (“Lo Stupro”), che convincono con una recitazione che trasporta lo spettatore nella psicologia di due donne estremamente complesse. C’è movimento nella scena, in una dinamicità data dall’impiego di più escamotages narrativi (dal monologo, che a tratti è soliloquio, per poi sfondare la quarta parete), che donano allo spettatore un momento di teatro molto alto – il che non è una cosa scontata per una compagnia amatoriale. Molto azzeccata la scelta obbligata di cominciare la scena dal pubblico, data l’assenza di quinte. Decisamente d’impatto anche l’idea di mescolare più forme di arte, che da una parte sembra volere essere un modo per urlare che la violenza sulle donne è trasversale, abbracciando tanto e tutto. Quindi non solo teatro, ma ballo e cinema, che si intrecciano restituendo un’immagine complessa e stratificata. Altra menzione particolare è da riservare al terzetto di ballerini composto da Martina Starace, Erica Colledanchise Masella e Riccardo Costa (quest’ultimo anche coreografo). Una coreografia che racconta con estrema eleganza e semplicità un episodio di femminicidio, trovando ancora un nuovo modo per dirci cose che sono note, ma non abbastanza. Lo spettacolo trova il suo atto conclusivo in un cortometraggio, anch’esso per la regia di Diego Sasso. Non me ne vorranno gli interpreti, ma la sequenza di scene non resta impressa per la recitazione, molto ancorata ai limiti dell’amatoriale. Anche la fotografia non rientra tra i prodotti migliori dello stesso regista, che cura ogni singolo aspetto dei propri lavori. Tuttavia, sono convincenti le sequenze mute, che si adagiano su una malinconica (ma non melensa) melodia solo pianoforte. Da esaltare sono anche le tematiche, che drammaticamente e troppo facilmente penetrano nello spettatore, raccontando una storia di gelosia e possesso che convergono nel femminicidio. Molto d’impatto è la scena in cui la protagonista (Claudia Conelli) batte sui vetri dell’auto in cui il fidanzato (Luca Tomao) la rinchiude prima di dare fuoco al tutto. Anche se nell’economia del prodotto totale della serata hanno un ruolo molto marginale, comunque sono da citare le performance musicali a cura di Dario Calderone, che regalano un momento di interpretazione acustica molto raffinato. E in egual misura, sono da apprezzare anche gli attori nel ruolo dei “Neri” (o “Fascisti” come li chiama lo stesso Sasso), nella fattispecie Angelo Nastrelli, Delio Fantasia e Marco De Luca, perché non è facile dare voce a delle vittime, ma credo che sia altrettanto complesso vestire i panni dei carnefici.

In conclusione, “Lo Stupro” per la regia di Diego Sasso, è uno spettacolo complesso e stratificato, che intreccia molte forme artistiche che, seppur espresse in modo talvolta troppo amatoriale, funzionano nel loro complesso, dando allo spettatore un momento di ottimo teatro. È un invito a riflettere, ad ascoltare, a empatizzare, a capire e a condannare. Operazioni che non sono semplici e banali, perché richiedono, specialmente da parte di uno spettatore uomo, uno sforzo davvero notevole. Ma la via della facilità quasi mai è sinonimo di giusto. Pertanto, facciamoci prendere per mano da questo spettacolo e lasciamoci accompagnare nel complesso, dove l’unico strumento è l’ascolto. L’unico vero rammarico è che questo spettacolo è stato un unicum. A giudizio di chi scrive, meriterebbe uno spazio di visibilità maggiore, anche al netto dell’alto potenziale che la compagnia comunque mostra. Spero di rivederli presto di nuovo su un palco.

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a cura di: Recensione di Lorenzo Valerio